RUBRICA
LA STORIA DI UN FIGLIO


IL PRIMO GIORNO
La storia di un figlio che non ha mai smesso di essere figlio


Dalla mia terra ho ereditato l'altezza delle colline e la profondità delle valli, il gusto per la vita e, più tardi, il disinteresse per essa.

Ricordo i giorni ordinari: il primo raggio di sole risvegliava i miei sensi, facendomi saltare felice sopra i miei numerosi fratelli. Mi mettevo gli stivali, prendevo la mia bustina e tenevo per mano mio padre.

Mi ha insegnato le vie, mi ha mostrato i ruscelli, i campi, i frutteti, la città.

Passavo la giornata con lui, osservando il suo lavoro da lontano, l'angolo della zappa, la danza della falce. L'ho visto imparare la pazienza dell'attesa e la lunga arte dello stupore. Lo seguivo ovunque andasse, volevo fare tutto quello che faceva.

Al tramonto, l'ultimo raggio di sole mi portava al suo cavallo e lui mi chiedeva di ricordargli la strada del ritorno. Scrollai le spalle, esitando, perché non sapevo più dove fossero le fontane, dove fosse l'attesa, dove fosse la frutta o dove fossero gli uomini.

Ricordo lo sguardo di mia madre e il silenzio del suo corpo appoggiato allo stipite della porta mentre mi guardava arrivare con i calzini sporchi e le labbra felici di essere vivo. La chiamavo e le raccontavo le grandi conquiste dell'essere figlio: il tempo della semina, la concimazione della terra, l'attività al mercato. Mio padre si avvicinava e mi sentiva dire la più certa di tutte le mie certezze: sono già grande come papà.

Anche se non erano gli stessi, i giorni si ripetevano, aggiungendo routine al tempo. Senza fare le stesse cose, erano le stesse cose che facevo io ed ero felice. Finché non arrivò un giorno banale in cui essere felice non mi bastava più. Non che non volessi essere felice, o che esserlo fosse troppo poco, o meno, perché non lo era. Posso solo dire che, nel profondo di me, non era abbastanza.

Quel giorno, all'alba, mia madre si alzò e io mi alzai con lei. Mangiammo insieme e, prima che andassi a mettermi gli stivali, a prendere la bustina e a prendere per mano mio padre, lei mi porse un bicchiere, come faceva sempre. Ma quel giorno avevo tanta sete.

Nei campi, sono stato disturbato dal suono degli uccelli che si affollavano e dall'acqua che scorreva nel terreno.

La sera, prima di andare a letto, andai a trovare mia madre in cucina. Rimase sveglia fino a tardi per cucire i calzini di mio padre e le tasche dei miei fratelli. Nel frattempo, recitava il rosario e cantava. Mi sedetti ai suoi piedi, come non avevo mai fatto prima, e le chiesi perché esistiamo. Scrollò le spalle e mi ricordai che anche lei era una figlia e che forse non conosceva ancora il posto degli uomini. O forse voleva solo farmi capire dove stava la fontana e dove no.

I giorni passavano e io ripetevo il mio corpo su quei sentieri ancora e ancora. Anche la sete si ripeteva. Perché non se ne va? E cosa ne faccio?


Testo di Verónica Benedito, asm Voce di Fausto Raínho Ferreira


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